Può un Reato (commesso fuori dal Lavoro) Portare Al Licenziamento?
Condotta extralavorativa e licenziamento per giusta causa
Il rapporto di lavoro subordinato si basa su un elemento fondamentale: la fiducia tra datore di lavoro e dipendente, che trova fondamento normativo negli art. 2104 e 2105 c.c.. In alcuni casi, comportamenti extralavorativi del lavoratore possono far venire meno questo vincolo di fiducia.
Un’ipotesi particolare è quella del lavoratore condannato per un reato commesso nella vita privata e, per questa ragione, licenziato per giusta causa dal datore di lavoro. Una recente sentenza, la n- 7793/2025 della Corte di Cassazione ha affrontato il tema, offrendo interessanti spunti di riflessione.
Il caso: una dipendente licenziata anni dopo la condanna
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte riguardava una lavoratrice dipendente di un’azienda che opera nel settore dei servizi postali. Nel 2013, la donna è stata arrestata per traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. La notizia è stata riportata dai giornali locali, ma l’azienda non ha preso subito provvedimenti.
Diversi anni dopo e, precisamente, nel mese di gennaio 2019, la società è venuta ufficialmente a conoscenza della condanna definitiva della dipendente – che aveva ricevuto una pena di quattro anni di reclusione e una multa di 18.000 euro – e, pertanto, il mese successivo ha contestato formalmente i fatti alla lavoratrice per poi licenziarla per giusta causa.
Il licenziamento, in particolare, era motivato sulla base del contratto collettivo, che considerava quale “giusta causa” la condanna definitiva per reati commessi al di fuori dell’ambito lavorativo.
Il ricorso e la decisione della Cassazione
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento e sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno accolto le sue doglianze, condannando la società resistente alla sua reintegrazione ai sensi dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’azienda, tuttavia, ha deciso di ricorrere in Cassazione, richiamandosi alla giurisprudenza secondo la quale
“il lavoratore deve astenersi da qualunque condotta, anche extralavorativa, che sia in contrasto con i doveri tipici del rapporto di lavoro subordinato o che leda irrimediabilmente il presupposto del rapporto fiduciario” (Cass. n. 26181 / 2024).
I giudici della Cassazione hanno confermato la decisione dei precedenti gradi di giudizio, chiarendo alcuni principi fondamentali:
- Un lavoratore deve evitare comportamenti, anche nella vita privata, che possano compromettere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Tuttavia, perché una condotta extralavorativa integrante fattispecie di reato possa giustificare il licenziamento, deve esserci un pregiudizio effettivo per l’azienda.
- Nel caso specifico, la dipendente aveva ripreso il lavoro già dal 2016, senza avere ruoli di responsabilità o contatti con il pubblico. Inoltre, la sua condotta illecita era stata valutata dal giudice penale come di lieve entità e non risultavano altri precedenti disciplinari a carico della lavoratrice.
- La sentenza penale, dunque, nonostante la previsione del contratto collettivo, non impone automaticamente il licenziamento: la valutazione spetta al datore di lavoro e deve essere tempestiva, non arbitraria e tenendo conto dell’effettivo impatto della condotta sul rapporto di lavoro, nonché il reale danno subito dall’azienda a causa di tale comportamento del dipendente.
Alla luce di questi elementi, la Cassazione ha ritenuto che il licenziamento difettasse di giusta causa, confermando la condanna alla reintegra della lavoratrice e al risarcimento del danno per il periodo di estromissione dal rapporto di lavoro.
Conclusioni
La Cassazione, anche in parziale riforma rispetto ai precedenti orientamenti, ha dunque affermato il principio per cui non sempre un reato commesso nella vita privata può portare al licenziamento per giusta causa.
La decisione del datore di lavoro deve infatti basarsi su una valutazione concreta del danno arrecato all’azienda e del ruolo ricoperto dal dipendente, nel rispetto del principio di tempestività.
In definitiva, la sentenza della Cassazione conferma che il licenziamento per giusta causa richiede un accertamento concreto e attuale del rapporto di fiducia, senza potere applicare alcun automatismo legato esclusivamente alla presenza di una condanna penale.
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