Torniamo a Parlare di Salario Minimo. è di ieri la notizia dell’approvazione da parte del parlamento Europeo della direttiva in merito al Salario minimo. Vedremo come e se l’Italia si adeguerà, intanto però andiamo ad analizzare quali sono gli strumenti già a disposizione del lavoratore per avere una giusta retribuzione 

 

Il Salario Minimo in Italia e in Europa

In Italia ad oggi non esiste una legge che fissa un salario minimo

Il  nostro Paese è uno dei pochi fra quelli europei ad esserne sprovvisto. Dei 27 Paesi facenti parte dell’Unione Europea, infatti, 21 di essi dispongono di una legge che prevede dei minimi retributivi, i quali sono abbastanza variabili da Stato a Stato: si va dagli € 332 mensili della Bulgaria agli € 2.022 del Lussemburgo. L’importanza di questo strumento particolarmente avvertita anche nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea. Non essendo possibile imporre un salario minimo unico e identico per ogni Stato membro – a causa delle loro evidenti ed oggettive peculiarità e differenze – il Consiglio Europeo ha proposto una direttiva per fissare un quadro comune per l’istituzione di minimi retributivi in ciascuno Stato, che è stata approvato ieri anche dal Parlamento Europeo.

L’introduzione di una retribuzione minima legale è una tematica quindi nel tempo divenuta costante nel dibattito pubblico interno, specialmente in occasione delle campagne elettorali: sono infatti diversi i partiti politici che inseriscono il salario minimo nei propri programmi, in quanto generalmente considerato uno strumento decisivo per fronteggiare la povertà e le disuguaglianze economiche.

I Principi in Materia di Retribuzione 

Premesso quanto sopra, occorre però evidenziare che l’assenza di un salario minimo legale nel nostro ordinamento, non implica di per sé che la stipulazione di un contratto di lavoro non preveda limiti nel determinare il quantum della retribuzione. 

Da un punto di vista generale, infatti, occorre sempre ricordare che la nostra Costituzione prevede, all’art. 36, che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Vengono così stabiliti due principi essenziali della retribuzione, ossia la sua

  1. proporzionalità;
  2. sufficienza

A ciò si aggiungono l’art. 23, 3° comma, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, secondo cui “ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale” e l’art. 31, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che recita: “Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”.

 

Il Ruolo Della Contrattazione Collettiva

Dunque, sulla scotta di questi principi generali/fondamentali, la determinazione della retribuzione in un contratto di lavoro subordinato e il suo limite minimo, vengono di fatto demandati alla contrattazione collettiva applicabile ai diversi settori e, pertanto, ai singoli contratti di lavoro. Tali strumenti (che hanno la funzione di rappresentare un “punto di incontro” fra le esigenze dei datori di lavoro, da un lato, e dei lavoratori, dall’altro) si compongono infatti di alcune tabelle aventi per oggetto la paga base di ciascuna categoria e ciascun livello di lavoratori, per ogni settore produttivo.

La giurisprudenza, a tale proposito, ha sempre ritenuto che i “minimi sindacali” integrassero i requisiti dell’art. 36 Cost., quantomeno a livello di presunzione; pertanto, in materia di retribuzione proporzionata e sufficiente, si è costantemente fatto riferimento ai parametri fissati dalla contrattazione collettiva, anche nel caso in cui quest’ultima non risulti direttamente applicabile al rapporto di lavoro (cfr. Cass., sent. n. 6565/1988 e Cass., sent. n. 25889/2008).

Cosa Fare In Caso di Retribuzione Inadeguata O Insufficiente

Alla luce di queste premesse circa la disciplina di legge e passando ad un piano più concreto è lecito domandarsi se un lavoratore che riceve una retribuzione conforme ai contratti collettivi, ma insufficiente per assicurare a sé e alla propria famiglia una vita dignitosa, quali strumenti ha per tutelare i propri diritti?

Probabilmente, fino ad alcuni anni fa, la risposta a tale quesito sarebbe stata “nessuno strumento”, proprio alla luce della presunzione di adeguatezza costituzionale delle tabelle retributive dei contratti collettivi sviluppata dalla giurisprudenza. Tuttavia, va segnalato che rispetto al passato, il quadro generale della contrattazione collettiva è  profondamente mutato: le rappresentanze sindacali di lavoratori e datori di lavoro si sono moltiplicate, così come i contratti collettivi, anche negli stessi settori, e si è diffuso il fenomeno dei contratti collettivi c.d. “pirata”, firmati da organizzazioni sindacali prive di rappresentatività, che stabiliscono condizioni economiche – e spesso anche umane – estremamente deteriori per i lavoratori.

In questo nuovo contesto, la giurisprudenza si è pertanto trovata ad affrontare nuovamente il tema del raffronto fra minimi sindacali e parametri dell’art. 36 Cost., giungendo in più occasioni ad affermare che le paghe orarie fissate da alcuni contratti collettivi non fossero manifestamente sufficienti a far condurre ai lavoratori un’esistenza libera e dignitosa e a permettere loro di far fronte alle ordinarie necessità della vita (cfr. Trib. Milano, sent. n. 1977/2016, confermata in appello con sent. n. 1885/2017; Trib. Torino, sent. n. 1128/2019; Trib Milano, sent. n. 673/2022). 

È il caso, a titolo esemplificativo, del CCNL per i dipendenti degli Istituti e delle Imprese di Vigilanza Privata – Sezione Servizi Fiduciari, il quale prevede una retribuzione di meno di € 900,00 mensili, a fronte di 40 ore settimanali di lavoro. 

In tali casi – accertata la non conformità costituzionale delle disposizioni retributive del contratto collettivo – i successivi passaggi svolti dai giudici consistono nella disapplicazione della clausola del contratto collettivo, nella determinazione di una retribuzione equa e rispettosa dell’art. 36 cost e, infine, nella condanna del datore di lavoro al versamento, in favore del lavoratore, delle relative differenze retributive. 

Ritornando al nostro quesito, dunque, si può affermare che attualmente vi è la possibilità di instaurare un giudizio dinanzi alla sezione lavoro del Tribunale per vedersi riconosciuta una retribuzione adeguata e sufficiente. Si tratta di una soluzione che, chiaramente, non ha efficacia generale e che inevitabilmente implica la prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice. 

Ciononostante, nell’attesa che l’Italia si conformi agli altri Stati europei attraverso una propria legge sul salario minimo, il ricorso giudiziale per differenze retributive ex art. 36 Cost rappresenta un primo passo nella concretizzazione di un diritto che sarebbe spettante ai lavoratori da sempre, ma che, in pratica, non ha mai trovato una sua piena realizzazione.