In queste settimane – come ciclicamente avvenuto durante tutti gli ultimi governi che si sono alternati nel nostro Paese – si è riacceso il dibattito circa il tema del salario minimo; le posizioni sembrano essere sempre le stesse, da un lato coloro (talune parti politiche) che ribadiscono la proposta di introduzione del salario minimo, come nella stragrande maggioranza delle altre nazioni europee e, dall’altro (imprese ed altre partiti) chi teme che la sua eventuale previsione normativa comporti l’aumento del costo del lavoro (cioè l’ammontare complessivo delle spese sostenute da un’azienda per i suoi lavoratori, che comprende salari, imposte e altre spese) di circa il 20 per cento (secondo uno studio del 2019 citato dal Sole 24 Ore), mettendo quindi le aziende fuori mercato nei confronti di quelle estere.

Ferme ed impregiudicate la validità e legittimità delle rispettive posizioni e delle motivazioni sottese, – dando per assodato che effettivamente per alcune categorie di lavoratori il salario è oggettivamente molto basso – credo che per operare valutazioni più concrete circa questo tema occorra ricondursi al suo reale scenario di riferimento,  ossia all’Europa, che rappresenta il campo d’azione dell’attuale mercato del lavoro di cui è necessario tenere conto in misura primaria.

Infatti, non può sfuggire che – pur essendo l’UE una delle regioni più ricche del mondo – secondo le stime più recenti ben 95 milioni di europei si trovano in condizioni di povertà (nel 2020 In Italia queste sono state quantificate nel 13,5% della popolazione); più precisamente, i dati Eurostat del 2018 mostrano che il 9,4% dei lavoratori europei si trova a rischio di povertà e che gli individui sono a rischio di povertà quando lavorano per più di metà anno ed il loro reddito annuale è inferiore al 60% del livello di reddito medio familiare nazionale al netto dei contributi sociali.

Solo questo allarmante dato rende evidente come nel nostro Paese – così come anche nell’intero contesto europeo – vi sia ormai l’impellente necessità di introdurre degli strumenti correttivi volti a consentire, per questa parte della popolazione, standard di vita più dignitosi, ciò proprio partendo da correttivi nell’ambito della legislazione giuslavoristica, tesi a contenere i fenomeni di riduzione del salario che inevitabilmente si verificano per effetto delle distorsioni che ci sono nella maggior parte dei contratti collettivi. In realtà, alcuni di questi accorgimenti possono già essere attuati a prescindere dal coinvolgimento della legislazione europea; ad esempio, si potrebbero adottare prassi che prevedano la deduzione dai salari minimi dei costi necessari per l’esecuzione del lavoro, come l’alloggio, gli indumenti necessari, gli strumenti, i dispositivi di protezione personale e altre attrezzature. 

Tuttavia, la parte più considerevole ed impattante sul sistema potrebbe derivare dall’applicazione (verso tutte le categorie di lavoratori – inclusi dunque quelli precari e atipici della gig economy ) degli strumenti indicati nel quadro legislativo relativo alle condizioni minime di lavoro  recentemente predisposto sto dalla Commissione europea, che mira a definire criteri chiari e stabili per garantire aggiornamenti periodici e puntuali dei salari minimi legali, nonché un coinvolgimento efficace delle parti sociali, rendendo in tal modo più trasparente l’andamento del salario minimo legale.

Fortunatamente, proprio su queste misure e, in particolare, sul salario minimo, potrebbero esserci a breve importanti novità; infatti, la Commissione ha presentato una proposta molto articolata di misure a sostegno del mercato del lavoro, tra le quali spicca l’introduzione di «salari minimi adeguati» in tutta l’Unione, il cui definitivo esame avverrà nei prossimi mesi, la cui effettiva applicazione determinerebbe indubbiamente una svolta sull’intero mercato del lavoro all’interno dell’Unione.