I Social Network fanno ormai parte della nostra vita, ma ancora c’è molta confusione sui limiti del loro utilizzo e a volte un uso sconsiderato può costare il posto di lavo. 

La Costituzione tutela la libertà di Pensiero ma come tutte le libertà non è incondizionata. Bisogna fare attenzione, quindi, a come si esercita il proprio diritto di critica nei confronti del datore di lavoro. In questo articolo troverete una panoramica su come viene affrontato questo tema in ambito giuslavoristico. 

La libertà di pensiero codificata nell’art. 21 Cost. – esercitabile tramite “la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e di cui l’attività giornalistica è la massima espressione – costituisce un diritto da annoverare tra quelli inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost. e dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, la cui tutela è una delle condizioni di base per il progresso della società. 

Ma tale libertà, al pari di tutte le altre, non è incondizionata. Il concetto di limite è infatti insito nel concetto di diritto: l’esercizio di un diritto, quale quello di pensiero (di cronaca, di critica, di satira) non arreca un danno ingiusto a terzi solo se esercitato in modo legittimo, ovvero non travalicando i limiti posti dall’ordinamento a tutela degli interessi altrui e collettivi di pari rango. 

Nell’ambito giuslavoristico, l’applicazione di queste principi è particolarmente difficile, nel momento in cui si tratta di definire concretamente i confini dell’esercizio del diritto di critica dei lavoratori nei confronti del datore. A tale riguardo, la giurisprudenza ha individuato il principio cardine di riferimento, secondo cui tutti i dipendenti hanno il diritto di manifestare liberamente, nel rispetto dei principi della Costituzione, il proprio pensiero sul luogo di lavoro anche attraverso l’utilizzo di espressioni critiche nei confronti della parte datoriale, ma sempre nel rispetto degli obblighi di fedeltà e collaborazione che connotano il vincolo di subordinazione, nonché dell’onore, della reputazione e del decoro del datore stesso.

Muovendo da questo principio, nel corso degli anni, la giurisprudenza della suprema Corte è giunta ad individuare limiti esterni e limiti interni del diritto di critica del lavoratore, secondo cui, in sintesi, questa deve rispettare i canoni della:

  • continenza sia sostanziale (i fatti narrati devono corrispondere a verità) che formale (l’esposizione della critica deve avvenire con correttezza e rispetto della dignità altrui);
  • pertinenza (rispondenza della critica ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione).

Pertanto, qualora anche solo uno dei predetti limiti venga travalicato, la critica avanzata dal lavoratore assume l’attitudine ad integrare un illecito disciplinare che può portare anche alla irrogazione della massima sanzione espulsiva, se avviene una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario. 

Quando poi la libertà di pensiero viene concretamente esercitata attraverso i social network, il tema è ancora più spinoso, poiché questi strumenti, pur agevolando l’agire quotidiano privato e pubblico e consentendo una più ampia libertà di manifestare le proprie idee, possono in taluni casi costituire mezzi di dilagante diffusione di affermazioni diffamatorie, calunniatorie o quanto meno denigratorie (a cui sono equiparabili anche immagini o filmati offensivi o fonti di dileggio o di discredito per lo stesso divulgatore oltre che di terzi). 

Facendo applicazione di questi principi, la Cassazione si è dovuta occupare di numerose vertenze scaturite da uno sfogo di un dipendente pubblicato su Facebook, Instagram od altre piattaforme online definendole con l’accoglimento del licenziamento disposto da parte del datore di lavoro.  Dunque, post e commenti sui social network possono costare il posto di lavoro quando si risolvono in un gratuito attacco all’immagine dell’azienda, a prescindere dal concreto danno procurato nell’immediatezza al proprio datore. Peraltro, va considerato che in questi casi, oltre all’aspetto disciplinare, sono coinvolti anche profili penalistici, quali una possibile incriminazione per il reato di diffamazione aggravata.

Infatti – al fine di valutare la legittimità delle sanzioni disciplinari irrogate nei confronti dei dipendenti che hanno utilizzato i social per operare critiche al datore – la Cassazione tende oggi ad essere piuttosto rigorosa nel valutare l’utilizzo di questi strumenti. Gli utenti social devono fare attenzione anche nel pubblicare post visibili soltanto ai propri contatti, perché la Cassazione valorizza non tanto la potenziale diffusione del messaggio dal contenuto offensivo nei confronti dei vertici aziendali ad un numero indeterminato di persone, quanto la circolazione del messaggio tra un numero apprezzabile di persone, quindi anche tra i propri ristretti e selezionati contatti. 

A pesare sulla legittimità delle sanzioni disciplinari irrogate dalle aziende per i commenti scritti dai lavoratori sui social network è infine anche e soprattutto il giudizio di proporzionalità. Si tratta di una valutazione complessa che deve basarsi sul corretto bilanciamento di una serie di elementi oggettivi e soggettivi che vanno dalla gravità dell’addebito al contesto, fino all’intensità del «profilo intenzionale» del lavoratore (Cass. n. 10280/2018, n. 27939/2021).

Da ultimo, segnalo alcune fattispecie particolari che attengono:

  • Ai rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni:

    A tale fine segnalo che l’art. 10 del Codice di comportamento dei pubblici dipendenti, vieta espressamente di pubblicare online sotto qualsiasi forma «dichiarazioni inerenti all’attività lavorativa, indipendentemente dal contenuto, se esse siano riconducibili, in via diretta o indiretta, all’ente». Questo significa che, a prescindere dal fatto che il commento sia denigratorio o meno, non è comunque lecito parlare del datore di lavoro se questo è una Pubblica Amministrazione

  • All’utilizzo dei “like” 

    Sui social network, le espressioni – anche quelle diffamatorie – possono essere manifestate in diversi modi, non solo tramite la pubblicazione di un post, ma anche con un like (che manifesta l’adesione al pensiero altrui), un emoji, la condivisione di un altrui commento, un hashtag). A riguardo, secondo il Tribunale di Crotone, la condotta del lavoratore che contribuisce a
    diffondere commenti denigratori rivolti all’azienda per la quale lavora tramite condivisioni e “like” “è connotata da particolare offensività ed è di una gravità tale da pregiudicare la fiducia con il datore di lavoro (Sent. n. 298/21), mentre è di diverso avviso è però la Corte Europea dei diritti dell’uomo: secondo cui non basta un “mi piace” su un post su Facebook per legittimare il licenziamento, perché sarebbe in contrasto con il diritto di libertà di espressione (Cedu, sent. n. 35786/2021).

     

     

  • Al gruppo chiuso dei dipendenti


    In passato, la giurisprudenza ha escluso che possa essere causa di licenziamento il fatto di condividere, in una chat interna tra soli dipendenti, dei commenti negativi nei confronti del datore di lavoro. Quest’ultimo non potrebbe entrare dentro le conversazioni riservate dei propri dipendenti;  eventuale prova, anche se acquisita in modo lecito (ad esempio attraverso la segnalazione di un lavoratore), sarebbe illegittima (Cass. n. 21965/2018).


Nel concludere questa breve panoramica sull’utilizzo dei social network
 nell’ambito del rapporto di lavoro, Credo che sia ormai indispensabile, anche in considerazione delle diverse soluzioni operate dalla giurisprudenza a seconda dei casi, che il legislatore finalmente adotti un vero e proprio sistema generale di governance per le esternazioni tramite social media, prevedendo una serie di regole precise di condotta che “dovrebbero” essere rispettate durante un’interazione con utenti di internet (blog, forum, community, semplici commenti), rimarcando la necessità di una maggior attenzione alla sobrietà nei comportamenti e nelle esternazioni mediatiche.