IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO è ILLEGITTIMO SE NON C’E’ LA
PROVA DELLA RIORGANIZZAZIONE AZIENDALE.
Il tribunale di Bologna ha accertato l’illegittimità del licenziamento per la nostra assistita
La legge attribuisce al datore di lavoro la possibilità di licenziare il dipendente in tutti i casi in cui, a causa di una crisi di produzione o di una riorganizzazione aziendale, è necessario sopprimere una determinata posizione lavorativa.
In queste ipotesi si parla di licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, che differisce da quello per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa poiché, per l’appunto, non si tratta di un provvedimento legato alla condotta del dipendente, ma si fonda esclusivamente su decisioni aziendali, per così dire, “neutre”.
Tuttavia, nella prassi spesso accade che alcuni datori di lavoro utilizzino in modo indebito questo tipo di licenziamento, al fine di terminare il rapporto di lavoro con dipendenti “non graditi” o non abbastanza produttivi. È per questo motivo che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, affinché sia valido, deve rispettare alcune condizioni formali e, soprattutto, sostanziali: il datore di lavoro, infatti, deve essere in grado di dimostrare l’effettiva riorganizzazione dell’azienda, la presenza di una crisi aziendale, oppure ogni altra situazione tale da determinare la soppressione della posizione lavorativa.
Di recente, questi principi sono stati ribaditi dal Tribunale di Bologna, che si è pronunciato in merito ad un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo subito da una lavoratrice assistita dal nostro Studio: accertata l’illegittimità del licenziamento, il Giudice ha condannato la società ex datrice di lavoro al pagamento di un’indennità pari a 12 mensilità lorde.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, affinché sia valido, deve rispettare alcune condizioni formali e, soprattutto, sostanziali: il datore di lavoro, infatti, deve essere in grado di dimostrare l’effettiva riorganizzazione dell’azienda, la presenza di una crisi aziendale, oppure ogni altra situazione tale da determinare la soppressione della posizione lavorativa.
Il Caso
La lavoratrice, disegnatrice presso un’impresa del settore metalmeccanico, dopo un lungo periodo di inattività forzata, dovuta alla collocazione in cassa integrazione, si è vista recapitare un provvedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fondato su un’asserita “soppressione della posizione lavorativa conseguente ad una riorganizzazione aziendale”.
Tuttavia, era emerso che, prima del provvedimento espulsivo, la dipendente era stata privata delle sue mansioni, le erano stati genericamente proposti diversi trasferimenti in sedi lontane o comunque difficilmente raggiungibili e, infine, anche il collocamento in cassa integrazione presentava diversi profili di illegittimità.
Ma, soprattutto, la società ex datrice di lavoro non aveva concretamente svolto alcuna riorganizzazione aziendale, anzi, a distanza di sole due settimane dal licenziamento della lavoratrice, era stata incorporata in una diversa società con centinaia di dipendenti.
Per questa ragione la lavoratrice, rivoltasi al nostro Studio, ha impugnato giudizialmente il licenziamento affinché ne fosse accertata l’illegittimità e la società condannata al risarcimento del danno.
Il Processo e La sentenza
Instaurato il giudizio di impugnazione, La sezione lavoro del Tribunale di Bologna – dopo aver ascoltato i testimoni citati dall’azienda in relazione ai fatti asseritamente sottostanti al licenziamento – ha accertato che, in realtà, non vi era prova di alcuna riorganizzazione aziendale.
In particolare, il Giudice ha dato atto della consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui, anche se non è possibile entrare nel merito delle scelte aziendali (che rientrano nella discrezionalità dell’imprenditore), la riorganizzazione deve essere “effettiva e non simulata o pretestuosa”, oltre a dover necessariamente esistere un nesso causale fra la riorganizzazione stessa e la soppressione della posizione lavorativa.
Nel caso in esame, è emerso che la datrice di lavoro da un lato aveva accusato (ingiustamente) la lavoratrice di non essere abbastanza produttiva e di avere “scarse capacità”, dall’altro che, in realtà, non c’era stata alcuna riorganizzazione aziendale: le circostanze su cui faceva leva l’azienda, infatti, risalivano a tre anni prima del licenziamento e, come tali, risultavano assolutamente ininfluenti.
In altre parole, sebbene il provvedimento espulsivo si basasse su asserite circostanze oggettive, la lavoratrice era stata ingiustamente licenziata per questioni di carattere esclusivamente soggettivo.
Ha infatti affermato il giudice che “è ancora più lampante che il recesso intimato alla ricorrente fosse determinato non certo da motivi oggettivi, quanto piuttosto soggettivi. […] Manca del tutto la prova che vi sia stata una riorganizzazione aziendale, considerando che la perdita dell’appalto tre anni prima non può comportare un elemento causale effettivo, visto il lungo lasso di tempo…”.
Per tali ragioni, accertata l’illegittimità del licenziamento, la società ex datrice di lavoro è stata condannata al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità retributive, oltre ad un risarcimento del danno di importo pari a circa € 6.500,00 per le altre condotte illegittime poste in essere dall’azienda.
Se hai ricevuto una lettera licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ti consigliamo di confrontarti con un legale esperto in diritto del lavoro. Solo un professionista con esperienza e competenze specifiche, infatti, può aiutarti a comprendere se il provvedimento è legittimo o meno e, in tal caso, a definire la migliore strategia da seguire per ottenere il giusto risarcimento.
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