Reperibilità Notturna Nel Luogo di Lavoro è da considerarsi orario lavorativo
L’orario di lavoro è definito dal D. Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 all’art. 1, che definisce l’orario di lavoro come
“qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Al secondo comma viene precisato invece come per “periodo di riposo”, si intenda “qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro”. In sostanza, la nozione di orario di lavoro include tutti i periodi in cui il dipendente è impegnato nell’attività lavorativa, comprese le attività accessorie come la vestizione della divisa, i tempi di spostamento all’interno dell’azienda e le pause previste.
In relazione a ciò, lo stesso citato D. Lgs. stabilisce delle regole sull’orario di
lavoro, fissandone dei limiti massimi giornalieri e settimanali. L’art. 3, infatti, fissa l’orario di lavoro ordinario in 40 ore settimanali, derogabili dai singoli contratti collettivi.
Cosa si intende per reperibilità?
La reperibilità è l’obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori dal proprio ordinario orario di lavoro, in vista di una eventuale prestazione lavorativa.
È una particolare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa in cui il lavoratore, pur non essendo generalmente obbligato a trovarsi fisicamente in azienda, deve essere in grado di rispondere a chiamate o richieste del datore di lavoro – supportate da ragioni di urgenza e di indifferibilità – entro un determinato periodo di tempo.
La reperibilità può essere retribuita in diversi modi, a seconda degli accordi tra datore di lavoro e lavoratore. Le modalità di retribuzione più comuni sono:
- indennità di reperibilità: un compenso erogato al lavoratore per il tempo in cui è reperibile. L’indennità può essere fissa o variabile, in base al numero di chiamate o richieste ricevute dal lavoratore;
- riduzione dell’orario di lavoro: il lavoratore reperibile può usufruire di una riduzione dell’orario di lavoro, in modo da compensare il tempo trascorso in reperibilità;
- banca ore: il dipendente reperibile può accumulare ore di reperibilità, che possono poi essere utilizzate per recuperare tempo libero o per ottenere un aumento della retribuzione.
Tradizionalmente, la reperibilità è intesa come la disponibilità del lavoratore, al di fuori del normale orario di lavoro e della sede aziendale, a intervenire in caso di necessità. Per questa “reperibilità passiva” (cioè senza effettivo intervento), spetta un’indennità di reperibilità.
Quando, invece, la reperibilità implica l’obbligo di permanenza del lavoratore all’interno dei locali aziendali (o in un luogo determinato dal datore di lavoro), la situazione cambia radicalmente.
Cosa dice la legge sulla reperibilità attiva?
In relazione al tema della reperibilità “attiva” – che prevede l’obbligo di permanenza del lavoratore all’interno dei locali aziendali – si è espressa recentissima giurisprudenza con l’ordinanza della Corte di Cassazione Sezione Lavoro n. 10648 del 23 aprile 2025.
Secondo l’orientamento della Suprema Corte, basandosi sulla nozione di lavoro ai sensi della Direttiva 2003/88/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, la richiesta del ricorrente – il quale lamentava turni di lavoro eccedenti il regolare ammontare di ore settimanali non adeguatamente retribuiti – va accolta sulla base del fatto che
“periodi di reperibilità, anche senza permanenza sul luogo di lavoro, devono essere qualificati come “orario di lavoro”; a maggior ragione, se il lavoratore è obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore di lavoro, manifestando una sostanziale disponibilità nei confronti di quest’ultimo, al fine di intervenire immediatamente in caso di necessità”
La Corte aggiunge ulteriormente che
“è stato riaffermato che la reperibilità costituisce orario di lavoro (con le corrispondenti obbligazioni datoriali sul pagamento della retribuzione) nel caso in cui i vincoli imposti al lavoratore in regime di reperibilità comprimano significativamente la facoltà del medesimo lavoratore di gestire liberamente, nel corso dello stesso periodo, il proprio tempo libero”.
L’obiettivo della legislazione europea e della giurisprudenza è quello di fissare prescrizioni minime destinate a migliorare la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, obiettivo che viene raggiunto, tra l’altro, mediante il ravvicinamento delle disposizioni nazionali riguardanti l’orario di lavoro.
Lavoro e riposo
Come precisato in più occasioni dalla Corte, le nozioni di “orario di lavoro” e di “periodo di riposo”, ai sensi della Direttiva 2003/88, costituiscono nozioni di diritto dell’Unione che occorre definire secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema e alla finalità di tale direttiva, intesa a stabilire prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti.
La Corte adotta, dunque, un approccio decisamente binario: il tempo del lavoratore è lavoro o è riposo. Le nozioni di “orario di lavoro” e “periodo di riposo”, infatti, “si escludono a vicenda. La definizione di “orario di lavoro” va intesa in opposizione a quella di “riposo”, con reciproca esclusione delle due nozioni.
L’obbligo di pernottamento presso il luogo di lavoro, anche se non determinante interventi di assistenza, comprime significativamente la gestione del proprio tempo, che non è più tempo libero, da parte del lavoratore interessato.
In riferimento ad alcune sentenze della Corte di Giustizia Europea sul tema, la Cassazione ha affermato che la
“Corte ha considerato che, nel corso di un periodo di guardia il lavoratore, tenuto a permanere sul luogo di lavoro all’immediata disposizione del suo datore di lavoro, deve restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale e beneficia di una minore libertà di gestire il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale. Pertanto, l’integralità di siffatto periodo deve essere qualificata come “orario di lavoro”, ai sensi della direttiva 2003/88, a prescindere dalle prestazioni di lavoro realmente effettuate dal lavoratore nel corso di suddetto periodo”.
CONCLUSIONI
La Suprema Corte, in via definitiva, ha espresso un orientamento ben definito secondo il quale, in base alla normativa dell’Unione Europea, sulla base della contrapposizione delle definizioni di “orario di lavoro” e “riposo”.
L’obbligo, per il lavoratore, di svolgere turni di pernottamento presso il luogo di lavoro, anche se non determinante interventi di assistenza, va considerato orario di lavoro e deve essere adeguatamente retribuito.
La retribuzione dovuta per tali prestazioni deve essere conforme ai criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost.
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