Lettera di licenziamento priva di motivazione, reintegrato
Si può essere licenziati senza che venga specificato il motivo?
Recentemente, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9544 dell’11 aprile 2025, ha affermato un principio che ulteriormente amplia le ipotesi di applicazione della reintegra di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, già oggetto di diverse pronunce della Corte Costituzionale durante gli scorsi anni.
Secondo la corte di legittimità, infatti, il datore di lavoro che comunica un provvedimento di licenziamento senza specificare alcun motivo per iscritto, oppure adduce un motivo generico e inidoneo alla sua concreta identificazione, è tenuto a reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro ovvero a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva, risultando per contro inapplicabile la c.d. indennità risarcitoria.
La vicenda giudiziaria
La vicenda esaminata dalla Corte riguardava un collaboratore di una grande compagnia assicurativa, impiegato come perito e liquidatore.
Inizialmente, la Corte d’Appello di Firenze – riformando la pronuncia di primo grado – aveva riconosciuto che il suo rapporto era, a tutti gli effetti, un lavoro dipendente, in luogo della formale natura di collaborazione a progetto attribuita al rapporto (in particolare, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. 276/2003).
Proprio per tale ragione, aveva dichiarato invalido il licenziamento comunicatogli, atteso che la lettera che lo annunciava era completamente priva di una motivazione formale.
Tuttavia, la Corte d’Appello, pur riconoscendo l’inefficacia, aveva stabilito che al lavoratore spettasse soltanto un risarcimento economico (previsto dall’articolo 18, comma 6, dello Statuto dei Lavoratori, la legge n. 300/1970).
I giudici di merito, infatti, riscontravano la presenza di soli vizi formali nella comunicazione di licenziamento, posto che, nel corso della giudizio, l’azienda era riuscita a dimostrare di avere effettivamente una valida ragione organizzativa per il provvedimento espulsivo, anche se non esplicitata.
Il lavoratore, non condividendo la decisione della Corte territoriale, aveva deciso di ricorrere in Cassazione, invocando la reintegrazione nel proprio posto di lavoro.
Il risarcimento non è sufficiente. Cosa ha deciso la corte di Cassazione?
La Suprema Corte di legittimità ha accolto il ricorso del lavoratore, riformando la sentenza d’appello e dichiarando l’applicabilità della c.d. tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sulla base dei principi che seguono.
Nella sentenza citata, infatti, viene affermato che la comunicazione di licenziamento deve contenere esplicitamente i motivi specifici per cui il provvedimento è stato adottato, e ciò a prescindere che si tratti di ragioni legati all’organizzazione aziendale (giustificato motivo oggettivo) oppure di motivazioni di carattere disciplinare (giustificato motivo soggettivo o giusta causa).
L’esplicitazione dei motivi del licenziamento, infatti, non costituisce un mero formalismo, ma una garanzia essenziale per permettere al lavoratore di esercitare il proprio diritto di difesa fin dal momento dell’irrogazione del provvedimento espulsivo, in difetto essendo sprovvisto degli elementi per comprendere le ragioni oggettive o soggettive sottostanti alla cessazione del rapporto di lavoro.
Su questa base, la Cassazione ha tracciato una significativa distinzione: da un lato, infatti, vi è il caso in cui la motivazione è presente, ma è formulata in modo poco chiaro o non abbastanza dettagliato (la “violazione del requisito di motivazione” a cui fa riferimento il comma 6 dell’art. 18). In tale ipotesi, la norma citata prevede esclusivamente una tutela economica parametrata all’anzianità professionale (e, eventualmente, ad altri elementi, come disposto nel 2018 dalla Corte Costituzionale).
Dall’altro lato, invece, vi è il caso di motivazione del tutto omessa “graficamente” nella lettera di licenziamento, o di motivazione vaga a tal punto da non consentire di comprendere nel modo più assoluto quale sia la ragione sottostante al provvedimento.
Secondo i Giudici di legittimità, in tale seconda ipotesi si configura un vizio particolarmente grave: Non si tratta infatti solo di una motivazione “poco specifica”, ma dell’assenza radicale di qualsiasi elemento utile al lavoratore per poter spiegare le proprie difese.
La Corte, al proposito, traccia una distinzione con i casi di infondatezza del “fatto” stesso posto alla base del licenziamento, così affermando l’inapplicabilità della tutela risarcitoria.
Infatti, in caso di assenza della motivazione scritta, la conseguenza sanzionatoria deve essere quella più forte prevista per i vizi più gravi, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro (disciplinata dal comma 4 dell’articolo 18) o la relativa indennità sostitutiva in misura pari a 15 mensilità, oltre che il risarcimento del danno.
Le motivazioni
Per giungere a tali conclusioni, la Corte non si limita ad utilizzare un approccio strettamente giuridico-normativo, ma svolge una valutazione logica di carattere più ampio.
I Giudici di legittimità sottolineano infatti come sarebbe irragionevole e ingiusto prevedere una sanzione più lieve, di tipo solo economico, a fronte del difetto più grave, quale la totale assenza di motivazione scritta, mentre applicare una sanzione più grave (reintegrazione) per un difetto potenzialmente meno grave, quale una motivazione formalmente addotta e poi rivelatasi infondata in giudizio.
Un simile approccio, ha concluso la Corte, finirebbe per premiare
“l’atteggiamento passivo del datore di lavoro, incentivato a lucrare un trattamento sanzionatorio meno rigoroso. E si finirebbe per aggirare la stessa tutela reintegratoria prevista per la più grave ipotesi di mancanza del fatto garantendo al datore di lavoro di poter estinguere più facilmente il rapporto di lavoro intimando un licenziamento senza alcuna motivazione”.
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